Sergio Quinzio ....Mysterium iniquitatis Le encicliche dell’ultimo papa



Risvolto
Secondo la profezia di Malachia, l’ultimo pontefice si chiamerà Pietro II: pochi anni ci dividono da lui, e il suo papato porrà il sigillo alla storia della Chiesa. Vecchio e deluso, angosciato dal mancato compimento dell’annuncio di salvezza tramandato lungo i millenni e dal presentimento della fine della storia, Pietro II scrive due encicliche. La prima – Resurrectio mortuorum – riafferma alla lettera la più radicale e sconcertante verità cristiana, la promessa più ardita e irrinunciabile della fede: la resurrezione dei morti. La seconda espone e interpreta quel Mysterium iniquitatis di cui Paolo ha scritto profetizzando la grande apostasia finale e sul quale la Chiesa, nel suo insegnamento, ha sempre taciuto. Non a caso: secondo l’esegesi del suo ultimo papa, infatti, è innanzitutto nella Chiesa – baluardo contro il male – che il male stesso si annida. E così la seconda enciclica di Pietro II si conclude con parole che sanciscono solennemente «il dogma del fallimento del cristianesimo nella storia del mondo». Subito dopo tali durissime rivelazioni Pietro II sale all’interno della cupola di San Pietro e muore precipitando all’incrocio dei bracci della croce, «nel luogo dei falsi trionfi, là dov’è anche sepolto il pescatore di Galilea». È questa la traccia di una «storia dell’ultimo papa» che ha ossessionato Quinzio per anni, da quando ne scrisse per la prima volta in La croce e il nulla. Rinunciando a ogni impalcatura narrativa, Quinzio ha finalmente deciso di prestare all’ultimo papa, alla fine dell’ultimo millennio, i suoi pensieri e le sue parole – e ha voluto accompagnare le due encicliche di Pietro II con una breve e lucidissima analisi di sé. E proprio questa rinuncia dà ancora maggiore evidenza alla natura drammatica e sconvolgente dell’interrogativo, perennemente eluso, sulla morte e sul male.

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L’Apocalisse: un eterno presente. A colloquio con Sergio Quinzio, in «Parolibera. Sicilia-Europa-Sicilia», n. 4, gennaio-giugno 1996, pp. 11-12.

D. Si è sostenuto che Lei auspichi un’  
accelerazione nel prevalere del male nel mondo in vista della salvezza ...
 
R.
Per me l’Apocalisse, nel suo realizzarsi storico, è l’esatto pendant della Croce. La Croce è patibolo e nello stesso tempo fonte di vita. È lo stesso paradosso di sempre, non c’è una scala ascendente che grazie all’etica porti. l’uomo più in alto, fino a raggiungere la Giustizia e la Pace. Ci sarà invece uno iato. E per superare questo iato occorre un atteggiamento rivoluzionario. Mi spiego meglio. Pensiamo alla rivoluzione russa: un rivoluzionario non poteva pensare ai poveri mugiki, allo Zar, ai nobili ... Quel mondo non poteva più rimanere, perché non ci sarebbe stata la rivoluzione. Il dolore e la morte in tal senso non provengono da una scelta, ma sono imposti. È vero che Isaia lancia un anatema su chi calcola i giorni di Dio ed invoca la fine, tuttavia quella fine dovrà pur venire. Come nel caso di una madre che attende la nascita del figlio: non è che essa voglia le doglie del parto, ma quelle doglie bisogna che ci siano se si vuole che il figlio nasca




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Il tempo cristiano in Quinzio è lineare e finalistico. Le verità delle Scritture non hanno carattere atemporale: descrivono il processo storico della chenosi di Dio, lo svuotamento della potenza divina descritto dalla Cabala. Nel suo monumentale “Commento alla Bibbia” il teologo segue il rapporto di Dio con il popolo ebraico, riscontrando nel susseguirsi dei testi la scomparsa della potenza divina dal mondo. Quinzio vede nell’incarnazione il fine ultimo e il culmine dello svuotamento: dalla luce della Genesi la salvezza si riduce a un minuscolo punto nello spazio e nel tempo, l’uomo Gesù. Questi compare in Palestina annunciando la prossima fine del mondo. L’annuncio del profeta-Dio risponde infine alle domande di Giobbe: con la pienezza dei tempi sarà spazzata via la sofferenza, giungeranno un nuovo cielo e una nuova terra.

 

Scrive Quinzio nel “Commento”: «(…) essendosi fatto Dio, in Gesù vivente e mortale, prossimo dell’uomo non esiste più un amore per Dio separato e diverso dall’amore per il prossimo. Ma questa scomparsa del Dio trascendente (Sal 123, 1-2), poiché di fatto è lontano da noi anche il Dio amico e fratello che era venuto, è una perdita infinita. Questo è il nodo della tragedia cristiana: di aver tutto annientato restringendo tutto nel punto dell’unica salvezza, la quale poi è fuggita».

 

Gesù muore. La crocifissione è un abominio che secondo Quinzio è blasfemo considerare parte del piano divino. Il punto a cui s’era ancorata la salvezza scompare dal mondo per tre giorni, il cielo resta vuoto. La resurrezione apre uno spiraglio di speranza, l’ultima promessa di Gesù è che lo spettacolo di marionette del mondo sta per finire. Quella promessa è tutto ciò che resta al cristiano per affrontare il perdurare: non c’è alcun Dio trascendente, alcun ordine sacro che possa confortare l’uomo in un universo ostile e insensato. C’è solo la speranza che l’annuncio si compia, che Dio non sia sconfitto dal mondo e venga a liberare i suoi figli dalla sofferenza e dalla morte. Che venga il Regno.

 

I duemila anni successivi, secondo il nostro autore, non sono che la perversione di questa speranza. Mentre i secoli si accavallano sulla promessa che non si compie mai, la storia tenta di realizzare il Regno in assenza di Dio: in questo senso la modernità è figlia della fede ebraica-cristiana. Sviluppo anticristico per eccellenza, i suoi effetti sulla vita degli uomini sono «buoni» ma tremendo è il loro corollario. Per Quinzio il processo che rende la vita più tollerabile non elimina lo scandalo del male, finisce anzi per perpetuarlo. La Chiesa, giustificando l’oppressione dall’alto della tradizione, è partecipe di tutto ciò, pur essendo custode della Scrittura e quindi della speranza. La modernità non è quindi gnosi, è frutto di una perversione bimillenaria del cristianesimo la cui cifra è l’ambiguità. Nel suo ultimo libro “Mysterium iniquitatis”, Quinzio immagina le encicliche dell’ultimo papa annunciato dalla profezia di Malachia, Pietro II. Il testo si conclude così: «Pubblicata l’enciclica che sancisce la fine del cristianesimo come suo ultimo possibile significato, Pietro II sale all’interno della cupola di San Pietro, legge nella notte illuminandole con una lampada le parole scritte tutt’intorno alla sua base: “Tu es Petrus et super hanc petram aedificabo ecclesiam meam et tibi dabo claves regni coelorum”. E cade all’incrocio dei bracci della croce, nel luogo dei falsi trionfi, là dov’è anche sepolto il pescatore di Galilea. Allora “ci fu un grande terremoto, di cui non si era mai visto l’uguale da quando gli uomini vivono sopra la terra. La grande città si squarciò in tre parti e crollarono le città delle nazioni. Dio si ricordò di Babilonia la grande, per darle da bere la coppa del vino del furore della sua ira. E tutte le isole fuggirono, e i monti non si trovarono più” (Ap 18, 16-20)».(GIOVANNI TOMASIN)



E lo stesso Quinzio illustra il suo libro all' incontro tenuto il 7.4.1995 a Brescia su iniziativa della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.Il testo dell'intervento (testo non rivisto) sta  in https://www.ccdc.it/documento/mysterium-iniquitatis/




Credo in Dio - scrive Quinzio -, credo tutto quello che la rivelazione biblica, sua parola, dice di lui, e lo credo nelle forme in cui tale rivelazione mi è stata proposta dalla tradizione alla quale appartengo. Ognuno di noi, infatti, non ha altra via per collegarsi alle origini. Credo, ma proprio questo mi ha obbligato a constatare la disperata incompatibilità fra ciò che Dio ci annuncia e promette e i fatti che da millenni continuano a smentirlo: realtà contro realtà, sine glossa, senza appello a nessun "ideale"



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Il mistero dell’iniquità in Sergio Quinzio
Giovanni Giorgio

"In quest’ottica trova senso che la storia, così come la racconta la Bibbia, non escludendo momenti di violenza e di guerra da parte del Signore degli eserciti(61), sia una storia di annichilimento di Dio che – dopo la creazione – prosegue nell’acme dell’incarnazione, della croce(62), della discesa
agli inferi e continua nello scacco del mancato compimento della salvezza a seguito della resurrezione di Gesù e si prolunga nel mistero dell’iniquità che dilaga nella storia nei modi più sopra esposti, fino agli ultimi esiti nichilistici. Di fronte alla sconfitta(63) di un Dio debole che si  mette in gioco nella storia fino a rischiare che il male possa coinvolgere se stesso nel suo destino di distruzione, la fede cristiana riesce a trovare una strada di senso nel «rivendicare apocalitticamente
la signoria di Dio per l’ultimo giorno […] negando che la sua signoria sia la legge che si estendeprovvidenzialmente su tutta la storia»(64) Dio ha da sempre rinunciato alla signoria sul mondo. In  questa rinuncia chenotica, Dio ha legato indissolubilmente all’umanità il suo stesso destino(65), sicché
la nostra storia è la sua storia. E in questa storia, la cui ultima possibilità di senso è la catastrofe apocalittica(66), Dio vive l’annichilimento definitivo della sua divina sacralità. In questo destino chenotico è tirato dentro l’uomo che completa nella sua carne ciò che manca alle sofferenze di Cristo(67), pensiero vertiginoso e teologicamente pieno di attrito.
In questa luce, anche il compimento apocalittico delle promesse deve essere rivisto, alla luce dell’ultima visione dell’Apocalisse(68), che rappresenta il compimento di tutte le profezie:«l’orizzonte […] della liturgia celeste, diventa alla fine terrestre, il Signore scende sulla terra per celebrare le sue nozze e abitare per sempre in mezzo al suo popolo»(69). Il regno così sarà il luogo del compimento delle promesse in quanto «Dio sarà perfettamente uomo»(70), «Dio vivrà la vita
dell’uomo»(71)
Dio avrà compiuto il suo cammino di chenosi fino in fondo. E sarà il tempo della consolazione, allorché egli darà consolazione eterna agli uomini per il dolore sofferto da coloro che, nella perseveranza, sono risultati il resto fedele, trovando in ciò la propria eterna consolazione.
Come quando, alla fine, dopo una lunga battaglia o una lunga sofferenza, si piange insieme di gioia perché si è rimasti vivi dopo la catastrofe, quasi increduli che le promesse, così a lungo (dis)attese,si sono compiute al di là di ogni aspettativa: «piangere insieme è il regno»(72)

per le note consultare, ovviamente, il testo citato





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